Ricevo, e volentieri pubblico, due recensioni del romanzo Nonovvio. Ecco la prima, firmata dalla Prof.ssa Oretta Guidi.
Simone Brunozzi, giovane assisano (classe 1977), laureato in ingegneria informatica, lavora presso l’Università per Stranieri di Perugia. Con questo romanzo è alla sua prima opera narrativa. I proventi economici del libro verranno devoluti ad Andrea Gili, sfortunato ragazzo di Bastia Umbra che convive dall’età di sei anni con una grave malattia irreversibile al cervello, e che ha alle spalle anni di sofferenze e decine di operazioni.
Prima di leggere il libro ho parlato con Simone perché anch’io lavoro nella stessa università: di solito la recensione richiede distacco, ma questa volta ho voluto fare un’eccezione e dialogare con il giovane ingegnere che nel risvolto di copertina si definisce “fantasista nel gioco della vita” e che considera ”la scrittura un esperimento, una evasione, un pizzico d’arte e di manovalanza letteraria”.
Molte sono le motivazioni che spingono a scrivere: l’esigenza di comunicare qualcosa di nuovo, un sofferto mondo interiore, la consapevolezza che la vera vita, comunque, non è quella che viviamo tutti i giorni, ma quella che immaginiamo o che sogniamo. Si scrive per trovare se stessi, per sapere che siamo, per evadere, certo, come d’altra parte sostiene Brunozzi. Già, evadere: attenzione, il verbo suona mistificante, è pericoloso. La scelta dell’autore di scrivere un romanzo fantascientifico, a tutta prima, potrebbe, infatti, indurci in errore dal momento che la fantascienza non ha goduto dei favori della critica “seria” se nel genere in questione noi ravvisiamo soprattutto l’incapacità di accettare la contemporaneità per proiettare nel futuro le contraddizioni e i problemi che angosciano la nostra società, sempre più complessa e indecifrabile. Invece, ormai, il genere fantascientifico è uscito dal limbo della pura evasione e dopo tanti romanzi diventati classici si è solidificato il convincimento che la scienza può aiutarci a immaginare il mondo futuro, a prevenire gli incubi legati al progresso o in ogni caso a renderli accettabili, comprensibili, a preparaci, senza inutili catastrofismi, al tempo che verrà. Grandi scrittori hanno sdoganato il genere fantascientifico nella stessa misura in cui giallisti di razza hanno liberato da pregiudizi limitativi il poliziesco, anche se è vero che tanta produzione nasce come prodotto da consumare e da gettare. Nel nostro secolo i rapporti tra letteratura e scienza, finalmente, hanno trovato momenti di feconda collaborazione, sicché non ci stupisce la presenza massiccia di tecnici, scienziati, informatici, ingegneri che invadono territori inesplorati, e che accettano la sfida di proiettare in opere poetiche o romanzesche utopie fantascientifiche, sogni avveniristici, ipotesi più o meno verificabili, deliri di potenza o al contrario, scenari di morte e di distruzione.
Comunque, è innegabile che nei casi migliori, la fantascienza si pone nei confronti dell’esistenza in posizione critica, filosofica, dialogica: alla base di tanti romanzi si pone l’eterno interrogativo: l’umanità dove sta andando? L’uomo sarà in grado di salvaguardare i valori spirituali di fronte alle incalzanti innovazioni tecnologiche e scientifiche? E via di questo passo…..Troppe ombre inquietanti si profilano sul presente e sul futuro dell’umanità e gli scienziati come del resto i filosofi ci prospettano scenari non certo rassicuranti. Di tutto questo è consapevole Brunozzi che affronta nel romanzo Nonovvio il tema del potere e delle sue conseguenze. Il futuro che egli immagina non è poi così lontano, è un futuro dietro l’angolo, un futuro quasi familiare, più o meno come quello ipotizzato dal grande Primo Levi che nelle sue storie fantabiologiche non descrive niente di eccessivo o catastrofico, in apparenza, ma qualcosa che sentiamo essere ormai alle porte. Ebbene, siamo nell’anno 2025, il protagonista è un professore universitario, linguista, (eh, sì, la vicinanza con tanti linguisti ha contagiato il buon Simone…), in prigione a causa di un reato sessuale (sembra che abbia violentato una studentessa); dopo quattro anni, quando ormai si stava abituando all’idea di marcire in carcere ancora per un po’, gli viene offerta l’opportunità di recarsi in Islanda, convocato da professori universitari e linguisti che vogliono approfondire l’opportunità di creare una lingua universale, un nuovo esperanto. Riccardo Leone accetta di buon grado l’offerta, stimolato dalla ricerca scientifica e dalle ipotesi futuribili degli studiosi che lo hanno contattato. Non è il caso di raccontare la trama, perché, è inutile negarlo, siffatti romanzi, hanno, comunque, bisogno di mistero, tensione per avvincere il lettore, tenerlo sospeso. Ma alcune considerazioni s’impongono. Per prima cosa è importante rassicurare il lettore che comprerà il libro: sì, il libro si legge volentieri, il ritmo è veloce, fluido, i dialoghi sono verosimili, delineano con sufficiente accettabilità i vari personaggi. Per essere un’opera prima possiamo dichiararci soddisfatti e consigliare a Brunozzi di continuare a scrivere, ma sinceramente gli consigliamo di prendere tempo, di continuare a leggere con insistenza i classici, come sappiamo che fa, (è un lettore attento e scrupoloso) e di non stancarsi di sondare l’animo umano. Già, l’animo. Il tema di fondo dell’opera narrativa è la creazione di una città utopica, l’ossessione è la logica del potere nelle sue forme, la creazione di una nuova lingua, di un linguaggio universale, e il rapporto tra intelligenza naturale e intelligenza artificiale. Su questo ultimo punto si evidenziano punti deboli: non è facile essere incisivi e innovatori toccando riflessioni di così grande attualità ed si può cadere in banalizzazioni o in affermazioni generiche. A torto si crede che parlare del futuro sia facile, mentre in realtà occorre una visione utopica e immaginativa di grande violenza; probabilmente è necessario avere sperimentato angoscia e disperazione, noia e disprezzo per il mondo che ci circonda, slancio visionario verso qualcosa di diverso. In effetti manca nel romanzo il sentimento dell’angoscia, del dubbio, dell’ansia metafisica che ci prende quando affrontiamo temi legati all’essenza stessa della vita. Tuttavia, è il caso di ripeterlo, malgrado qualche difetto, (inevitabile in un’opera prima), malgrado una certa piattezza argomentativa e genericità, il romanzo “tiene”, si fa leggere, non annoia. Non mancano momenti dialogici ironici o divertenti, non manca una informazione adeguata dei mezzi informatici e delle loro potenzialità: manca invece una dinamica viva dei sentimenti. Ma, via, sappiamo tutti quanto sia raro leggere un romanzo veramente riuscito. Ci sembra molto, peraltro, leggere un romanzo dignitoso, scritto in una lingua viva, serio ed impegnato. E ci sembra giusto incoraggiare un giovane che osa parlare nientemeno che della creazione di un nuovo linguaggio.
Ed allora, mio caro giovane aspirante scrittore, le tue letture saranno Borges e Landolfi.
Oretta Guidi